sabato 29 marzo 2008

Piove!

Già al tramonto alcune luci strane rischiaravano il cielo, qualcosa di conosciuto ma allo stesso tempo insolito per queste parti, almeno per me. Con il calar del buio i lampi si sono fatti semrpre più forti, e non ci siamo voluti perdere lo spettacolo, sdraiati sul tappeto a vedere il cielo, un bicchiere di birra in mano. Casa nostra è uno spettacolo proprio per questo, c'è un bel giardino sabbioso molto comodo, molto ospitale.
Tanta luce, grandi bagliori nel buio, nessun suono. Solo, nell'aria, si percepiva qualcosa, un senso di elettricità diffusa. E poi, all'improvviso, un tuono. Uno, solo, grande e terribile. Il vento ha cominciato a soffiare più del normale, qualcosa stava per accadere.
Per sapere cosa ho dovuto aspettare fino all'una di notte, quando un rumore familiare mi ha svegliato; un rumore che da noi vuol dire brutto tempo, ma che qui è una benedizione, anche per me che sono appena arrivato.
La pioggia vuol dire acqua, quell'acqua che sono due giorni che manca; la pioggia vuol dire meno sabbia, quella sabbia che entra ovunque, anche nel letto quando dormi; la pioggia vuol dire vita, anche se sono solo due gocce. Arriverà il tempo delle piogge, e di acqua ce ne sarà tanta.
Per ora è stato solo un assaggio. Breve, intenso, e piacevole.
Così piacevole che sono shizzato fuori dal letto, e senza dubitare mi sono messo a bocca aperta a respirare quella pioggia, quell'aria pulita, quelle gocce spesse che cadevano dal cielo.
L'immagine: a braccia aperte sotto la pioggia, felice di essere qui.

venerdì 21 marzo 2008

finalmente un po' di foto...

Chad

lunedì 17 marzo 2008

Oscar Golf Sierra unité

Oscar Golf Sierra unité, Oscar Golf Sierra unité. Rien a signaler...
Questa radio non cessa mai di suonare, di buttare fuori codici apparentemente incomprensibili; e io piano piano li comprendo. Per ora il mio nome è diventato Oscar Golf Sierra unité...
Tantissime impressioni, pochissime foto, anzi nessuna. Non ho ancora abbastanza confidenza con la popolazione, con i mezzi, con le mie impressioni. E quindi preferisco non fare il turista.
E poi? Poi adesso esco al campo, vado a lavorare. Bisogna convincere i rifugiati della necessità di un nuovo cimitero, e che devono dimenticare un po' la questione etnica, impossibile da dimenticare, perchè fatta di sangue...
Ciao!

martedì 11 marzo 2008

Prime impression di Goz Beida

Dopo un weekend passato ad Abéché (di cui ometto una descrizione e le impressioni ricevute), finalmente stamattina abbiamo preso l’aereo per Goz Beida.
L’aereo: un monoelica del World Food Programme a 16 posti, in cui invece del solito discorsetto da hostess con dimostrazione annessa di come allacciare le cinture e come gonfiare il giubbotto di salvataggio, è salito un tizio non meglio identificato che come un amico ci ha chiesto: “allora, le cinture… beh, le avete allacciate? Mi raccomando spegnete i telefonini, e… in caso, dovrebbe esserci nel sedile o lì vicino il sacchetto per vomitare…” (testuali parole!).
50 minuti di volo, sopra un deserto fatto di sabbia, rocce e qualche villaggetto qua e la, che ti chiedi come facciano a viverci. Ogni tanto qualche forte scossone dovuto alle correnti calde, e una continua sudata fino alla destinazione (41 gradi…). Sulla pista di atterraggio, in terra battuta, c’erano già le jeep che ci aspettavano. “Ma Goz Beida dov’è?” mi sono chiesto. La risposta è arrivata dieci minuti dopo, quando abbiamo cominciato ad attraversare delle capanne fatte di legno e canne. Capre di qua e di la, qualche bambino, un piccolo mercato fatto di polvere e poco altro, poi qualche costruzione più solida, recintate da filo spinato: i vari UNHCR, UNICEF, OCHA, e tutte le varie organizzazioni umanitarie, che per forza di cose (rapine, assalti, ribelli, guerre) si sono dovute adeguare. Federica (la nostra capa) ci mostrava ogni cosa. “Ecco la moschea, ecco la casa del Sultano, ecco il fiume”. Quale fiume? Ah già, ora è la stagione secca. Il fiume arriverà, a suo tempo.
Finalmente siamo arrivati alla nostra base, o casa che dirsi voglia. Anch’essa con i muri spinati. E’ carina la nostra casa. Ma soprattutto è la nostra casa, dopo una settimana di vagabondare per questo paese che più lo conosco e più mi sembra strano, o per lo meno ai confini della nostra immaginazione collettiva.
Appena varcato il cancello c’è il parcheggio e gli uffici. Oltrepassata l’ombra di un albero c’è un cortile, sul quale affacciano due grandi verande a prova di zanzara (in teoria). Dietro ad ognuna di esse ci sono le varie stanze, o celle, che per i prossimi mesi saranno le nostre stanze, la nostra cucina, il nostro magazzino, la sala riunioni. I bagni sono invece un po’ più in là: agognavo una doccia fredda ma, ironia della sorte, il sole batte sul cassone dell’acqua, e la doccia me la sono fatta calda calda.
Il pomeriggio è passato con i saluti alle autorità locali: il Segretario Generale della prefettura locale ci ha accolto nel suo “ufficio” fatto di paglia, all’ombra di un bellissimo albero, nel quale ci ha offerto del the e dato buoni consigli. Il capo dell’UNHCR ci ha accolto nel suo ufficio fatto di mattoni e aria condizionata, e ci ha chiesto dei buoni consigli. Mille facce, mille nomi, mille strette di mano. Solo non siamo riusciti a incontrare il Sultano, il re della regione, una regione nella quale convivono le due autorità amministrativa e tradizionale. Il Sultano padre, a detta di tutti, è un uomo colto e saggio. Il Sultano figlio non sa leggere e scrivere.
Ora sono nella mia stanza, al riparo della zanzariera (preventiva, perché non sembrano esserci molte zanzare), sdraiato su questo che diverrà poco a poco il MIO letto.
Sono le 22, sto per chiudere gli occhi, fuori il muezzin canta e canterà tutta la notte. E io, finalmente, sono arrivato a destinazione. Forse tra un po’ mi sentirò a casa.

Prime impression di Goz Beida

Dopo un weekend passato ad Abéché (di cui ometto una descrizione e le impressioni ricevute), finalmente stamattina abbiamo preso l’aereo per Goz Beida.
L’aereo: un monoelica del World Food Programme a 16 posti, in cui invece del solito discorsetto da hostess con dimostrazione annessa di come allacciare le cinture e come gonfiare il giubbotto di salvataggio, è salito un tizio non meglio identificato che come un amico ci ha chiesto: “allora, le cinture… beh, le avete allacciate? Mi raccomando spegnete i telefonini, e… in caso, dovrebbe esserci nel sedile o lì vicino il sacchetto per vomitare…” (testuali parole!).
50 minuti di volo, sopra un deserto fatto di sabbia, rocce e qualche villaggetto qua e la, che ti chiedi come facciano a viverci. Ogni tanto qualche forte scossone dovuto alle correnti calde, e una continua sudata fino alla destinazione (41 gradi…). Sulla pista di atterraggio, in terra battuta, c’erano già le jeep che ci aspettavano. “Ma Goz Beida dov’è?” mi sono chiesto. La risposta è arrivata dieci minuti dopo, quando abbiamo cominciato ad attraversare delle capanne fatte di legno e canne. Capre di qua e di la, qualche bambino, un piccolo mercato fatto di polvere e poco altro, poi qualche costruzione più solida, recintate da filo spinato: i vari UNHCR, UNICEF, OCHA, e tutte le varie organizzazioni umanitarie, che per forza di cose (rapine, assalti, ribelli, guerre) si sono dovute adeguare. Federica (la nostra capa) ci mostrava ogni cosa. “Ecco la moschea, ecco la casa del Sultano, ecco il fiume”. Quale fiume? Ah già, ora è la stagione secca. Il fiume arriverà, a suo tempo.
Finalmente siamo arrivati alla nostra base, o casa che dirsi voglia. Anch’essa con i muri spinati. E’ carina la nostra casa. Ma soprattutto è la nostra casa, dopo una settimana di vagabondare per questo paese che più lo conosco e più mi sembra strano, o per lo meno ai confini della nostra immaginazione collettiva.
Appena varcato il cancello c’è il parcheggio e gli uffici. Oltrepassata l’ombra di un albero c’è un cortile, sul quale affacciano due grandi verande a prova di zanzara (in teoria). Dietro ad ognuna di esse ci sono le varie stanze, o celle, che per i prossimi mesi saranno le nostre stanze, la nostra cucina, il nostro magazzino, la sala riunioni. I bagni sono invece un po’ più in là: agognavo una doccia fredda ma, ironia della sorte, il sole batte sul cassone dell’acqua, e la doccia me la sono fatta calda calda.
Il pomeriggio è passato con i saluti alle autorità locali: il Segretario Generale della prefettura locale ci ha accolto nel suo “ufficio” fatto di paglia, all’ombra di un bellissimo albero, nel quale ci ha offerto del the e dato buoni consigli. Il capo dell’UNHCR ci ha accolto nel suo ufficio fatto di mattoni e aria condizionata, e ci ha chiesto dei buoni consigli. Mille facce, mille nomi, mille strette di mano. Solo non siamo riusciti a incontrare il Sultano, il re della regione, una regione nella quale convivono le due autorità amministrativa e tradizionale. Il Sultano padre, a detta di tutti, è un uomo colto e saggio. Il Sultano figlio non sa leggere e scrivere.
Ora sono nella mia stanza, al riparo della zanzariera (preventiva, perché non sembrano esserci molte zanzare), sdraiato su questo che diverrà poco a poco il MIO letto.
Sono le 22, sto per chiudere gli occhi, fuori il muezzin canta e canterà tutta la notte. E io, finalmente, sono arrivato a destinazione. Forse tra un po’ mi sentirò a casa.

lunedì 3 marzo 2008

un'email per i miei amichetti africani

Una email di Paola mi dà il la per iniziare a scrivervi, cari compagnucci d’Africa.
[...]
Primo impatto, un caldo torrido. Forse Filo e Chiara lo stanno già provando, ma per chi viene dall’Italia (e dal suo gelo) i 30 gradi notturni di qui sono una vera botta, ma niente in confronto ai 40-45 gradi diurni: un caldo afoso che ti si appiccica addosso, insieme alla sabbia del deserto che circonda tutto qui. In effetti di sabbia sono le strade, le case, in poche ore lo sono diventato pure io!
Beh, per ora non c’è molto da dire sul cosa ho fatto; i soliti giri per il visto, per il permesso di circolazione, per il contro visto, per il timbro che manca, ma in quell’ufficio non lo accettano, allora devi correre di qua e di la, e davanti ti trovi sempre quell’impiegato stronzo che gode nel dirti “je suis desolé” e ti rimbalza da un’altra parte… vabbè, ci siamo abituati no?
Qui a N’Djamena siamo quindi solo di passaggio, la vera destinazione è un villaggio che si chiama Goz Beida, nell’est, a un’ottantina di km dal confine sudanese. Ci andrò quando (e se) otterremo tutti i permessi necessari.
Sono in compagnia di Leila e Anna. Quest’ultima sta in Ciad dal luglio scorso, e sta rientrando dopo le vacanze “forzate”.
Ma quello che più mi ha colpito è stato notare in me l’automatico paragone/confronto che faccio in ogni istante con l’altra mia unica esperienza africana. Con le mie compagne d’avventura, è un continuo riportare esperienze precedenti del tipo “però in Rwanda facevano così” o “in Mauritania invece…”. E quindi purtroppo passo più tempo a trovare le differenze che le vere e proprie novità: qui l’acqua nei filtri non la fanno bollire, ma la prendono direttamente dal rubinetto; per lavare per terra usano gli stracci; non ci si mette la cintura di sicurezza, per salutare si dice “Allah è grande”, invece di “Bite”. Ecco, la lingua per esempio: un sacco di volte mi viene da dire “yego”, oppure “karibu” o anche “sawa”, ma pooi mi rendo conto che qui non significano nulla…
N’Djamena è una città piatta, come ho già detto caldissima e piena di sabbia, traffico allucinante, con moto, motorini e mitiche scassatissime Peugeot 404 che fanno da taxi. Non ci sono come a Kigali i branchi di Land Cruiser che sfrecciano, solo qualche toyota scassato con sopra i militari. Ieri per esempio ne ho visto uno, con sopra quattro bambini che facevano la guardia a un carico di bazooka… i bambini soldato esistono, e per la prima volta li ho visti.
Con la mia ong il rapporto è strano, mi hanno mandato qui senza una vera e propria formazione, e al contrario di quanto aveva fatto Caritas, sono stato riempito di particolari, senza una generale infarinatura su come affrontare il tutto: mi ricordo che appena arrivato a Gisenyi maledivo Piero Rinaldi, Francesco Meneghetti e compagnia bella per non averci spiegato nulla, ma oggi capisco che era stata una scelta ponderata e giusta: qui in due giorni so già cosa mi aspetterà una volta che raggiungerò Goz Beida, chi sono le persone che incontrerò, quali sono i loro caratteri, i loro difetti. Sono due giorni che mi rimbalza in testa un’espressione, “la sospensione del giudizio”, termine molto caritas style, che più che mai comprendo e vorrei fare mio. Ma purtroppo non ci riesco. Anna (che sono otto mesi che vive qui) ci riempie continuamente di giudizi su tutto, è un continuo commentare e tentare di spiegare, mentre invece (ahhh… la legge del contrappasso!) vorrei solo silenzio e assaporare ogni contatto e sfumatura. Certo, fa anche comodo, perché in effetti la situazione non è delle più rosee.
Girando per il centro si vedono gli effetti della appena finita ribellione: palazzi distrutti e fatti tipo gruviera, qualche relitto di vettura non meglio identificato, e, come sempre, militari ovunque. Incredibile vedere quanti ce ne siano, tutti armati fino ai denti. Di giorno sono tranquilli, di sera… non lo so, e per ora non ci tengo a saperlo.
Ecco, il generatore è spento (in questa casa non c’è luce, non c’è gas, e l’acqua va e viene), e così anche le mi idee…
Per ora poi non è che ho altro molto da dire, anzi, mi pare proprio di aver detto troppo!

Un bacio a tutti, komera cyane

Ludo

domenica 2 marzo 2008

Bienvenu à N'Djamena!

“Benvenuti all’aeroporto internazionale di N’Djamena. L’ora locale è le 20:50, la temperatura esterna è di 30 gradi. Vi auguriamo un buon soggiorno in Chad, e “bonne courage!”... non so perchè, ma questo augurio suona un po' sinistro. 
Lo steward attacca il microfono, nei miei occhi ci sono ancora le tre ore di deserto nero sotto di me… incredibile osservare come ci siano più stelle in cielo che luci in terra.
Sono stanco, appena si apre il portellone divento anche accaldato, ma i nervi sono vigili, attenti. Per fortuna l’aereo è partito prima del previsto (vantaggi del check-in “aumma-aumma” fatto in Libia: se ci sono tutti si parte prima!), e non ci toccherà passare la notte in aeroporto. Se fossimo arrivati troppo tardi avremmo sforato il coprifuoco, e qui non è proprio una cosa carina da fare…
Le mie compagne di viaggio, Anna e Leila, sono stanche quanto me, e appena arriviamo a casa crollano sotto la zanzariera.
Effettivamente lo steward non si era sbagliato: fa un caldo torrido!

La mattina è proprio il caldo a svegliarmi, il sole è già alto in questa domenica ciadiana. 40 gradi? Forse di più. E poi l’umidità, che rende ancora più insopportabile il tutto. Mi conforta pensare alle previsioni del tempo ascoltate venerdì sera a Roma: in arrivo per voi una gelata siberiana, temperature in calo di 15 gradi: povera Italia…