lunedì 9 giugno 2008

non vale solo in Africa...

Cresciuto, dimagrito, la misura decidetela voi. Io mi limito a osservare i cambiamenti, a tenere la mente sveglia e evitare giudizi affrettati.
Facile farsi imbambolare in un posto che non è il tuo, farti ammaliare dalle storie, dalle dicerie, dal fascino di un posto che più tempo passa e più non conosco. Potrei scrivere di Nitesh, partito ormai da qualche giorno, che colla sua carica di cinismo e antipatia mi ha aperto gli occhi su alcune questioni, prima di tutto sulla questione gnoseologica: di quello che ti dicono, di quello che vedi, di quello che senti, in un posto come questo è meglio prendere in considerazione solo la metà, tenere un quarto, credere a un decimo.
Ho quindi ripescato nella mia memoria qualche saggio insegnamento, e sono arrivato per altre vie alle stesse conclusioni che mi ero portato come bagaglio al mio arrivo, ormai quasi 4 mesi fa: la sospensione del giudizio, unica via nonviolenta per una comprensione il più possibile sincera della realtà; tutti hanno ragione, anche nei loro torti. E’ l’unica lezione da apprendere in un posto come questo, dove l’estremizzazione del conflitto è lampante, o almeno più evidente che in Europa.

Altra lezione appresa (sto cominciando ad usare un vocabolario da manuale di interventi d’emergenza…) riguarda me stesso: l’onestà paga, l’impegno anche. Non solo l’impegno ideale, quello che sta dietro a tutto, e che alla fine mi spinge ad essere qui invece che a Roma. Parlo dell’impegno quotidiano, quella spinta al fare meglio che ogni giorno deve condurre le nostre azioni, in un costante confronto coll’altro. Perché solo se accetteremo l’Altro come interlocutore e come fine del nostro agire potremo avere la forza di fare del nostro meglio. Forse è un po’ troppo da “lupetto” come discorso, ma effettivamente mi rendo ora conto che voler fare del bene, e voler fare meglio sono due concetti profondamente diversi: voler fare del bene è un concetto statico, ma il tentativo di migliorare il proprio agire, in costante sfida con se stessi, è l’unica cosa che può farci avvicinare a un ideale, l’ideale di accettare l’Altro come interlocutore privilegiato di noi stessi.
Sicuramente mi sono capito solo io, probabilmente è un discorso che non interessa nessuno. Ma attenzione: questo discorso non vale solo in Africa…

giovedì 17 aprile 2008

VIVO!!!!

le foto sono aggiornate... cliccate e seguite...
vedrete un po' di foto di Koukou, dove mi trovo da una settimana, e dell'incendio che ha distrutto una buona parte del campo di rifugiati... a quest'ultimo sto dedicando i miei sforzi, i miei pensieri, tutto il mio tempo... non ho neanche il tempo di mettermi seduto una buona mezz'ora e scrivere qualcosa di decente sul blog... scusate!
se volete più info sull'incendio cliccate qui

sabato 29 marzo 2008

Piove!

Già al tramonto alcune luci strane rischiaravano il cielo, qualcosa di conosciuto ma allo stesso tempo insolito per queste parti, almeno per me. Con il calar del buio i lampi si sono fatti semrpre più forti, e non ci siamo voluti perdere lo spettacolo, sdraiati sul tappeto a vedere il cielo, un bicchiere di birra in mano. Casa nostra è uno spettacolo proprio per questo, c'è un bel giardino sabbioso molto comodo, molto ospitale.
Tanta luce, grandi bagliori nel buio, nessun suono. Solo, nell'aria, si percepiva qualcosa, un senso di elettricità diffusa. E poi, all'improvviso, un tuono. Uno, solo, grande e terribile. Il vento ha cominciato a soffiare più del normale, qualcosa stava per accadere.
Per sapere cosa ho dovuto aspettare fino all'una di notte, quando un rumore familiare mi ha svegliato; un rumore che da noi vuol dire brutto tempo, ma che qui è una benedizione, anche per me che sono appena arrivato.
La pioggia vuol dire acqua, quell'acqua che sono due giorni che manca; la pioggia vuol dire meno sabbia, quella sabbia che entra ovunque, anche nel letto quando dormi; la pioggia vuol dire vita, anche se sono solo due gocce. Arriverà il tempo delle piogge, e di acqua ce ne sarà tanta.
Per ora è stato solo un assaggio. Breve, intenso, e piacevole.
Così piacevole che sono shizzato fuori dal letto, e senza dubitare mi sono messo a bocca aperta a respirare quella pioggia, quell'aria pulita, quelle gocce spesse che cadevano dal cielo.
L'immagine: a braccia aperte sotto la pioggia, felice di essere qui.

venerdì 21 marzo 2008

finalmente un po' di foto...

Chad

lunedì 17 marzo 2008

Oscar Golf Sierra unité

Oscar Golf Sierra unité, Oscar Golf Sierra unité. Rien a signaler...
Questa radio non cessa mai di suonare, di buttare fuori codici apparentemente incomprensibili; e io piano piano li comprendo. Per ora il mio nome è diventato Oscar Golf Sierra unité...
Tantissime impressioni, pochissime foto, anzi nessuna. Non ho ancora abbastanza confidenza con la popolazione, con i mezzi, con le mie impressioni. E quindi preferisco non fare il turista.
E poi? Poi adesso esco al campo, vado a lavorare. Bisogna convincere i rifugiati della necessità di un nuovo cimitero, e che devono dimenticare un po' la questione etnica, impossibile da dimenticare, perchè fatta di sangue...
Ciao!

martedì 11 marzo 2008

Prime impression di Goz Beida

Dopo un weekend passato ad Abéché (di cui ometto una descrizione e le impressioni ricevute), finalmente stamattina abbiamo preso l’aereo per Goz Beida.
L’aereo: un monoelica del World Food Programme a 16 posti, in cui invece del solito discorsetto da hostess con dimostrazione annessa di come allacciare le cinture e come gonfiare il giubbotto di salvataggio, è salito un tizio non meglio identificato che come un amico ci ha chiesto: “allora, le cinture… beh, le avete allacciate? Mi raccomando spegnete i telefonini, e… in caso, dovrebbe esserci nel sedile o lì vicino il sacchetto per vomitare…” (testuali parole!).
50 minuti di volo, sopra un deserto fatto di sabbia, rocce e qualche villaggetto qua e la, che ti chiedi come facciano a viverci. Ogni tanto qualche forte scossone dovuto alle correnti calde, e una continua sudata fino alla destinazione (41 gradi…). Sulla pista di atterraggio, in terra battuta, c’erano già le jeep che ci aspettavano. “Ma Goz Beida dov’è?” mi sono chiesto. La risposta è arrivata dieci minuti dopo, quando abbiamo cominciato ad attraversare delle capanne fatte di legno e canne. Capre di qua e di la, qualche bambino, un piccolo mercato fatto di polvere e poco altro, poi qualche costruzione più solida, recintate da filo spinato: i vari UNHCR, UNICEF, OCHA, e tutte le varie organizzazioni umanitarie, che per forza di cose (rapine, assalti, ribelli, guerre) si sono dovute adeguare. Federica (la nostra capa) ci mostrava ogni cosa. “Ecco la moschea, ecco la casa del Sultano, ecco il fiume”. Quale fiume? Ah già, ora è la stagione secca. Il fiume arriverà, a suo tempo.
Finalmente siamo arrivati alla nostra base, o casa che dirsi voglia. Anch’essa con i muri spinati. E’ carina la nostra casa. Ma soprattutto è la nostra casa, dopo una settimana di vagabondare per questo paese che più lo conosco e più mi sembra strano, o per lo meno ai confini della nostra immaginazione collettiva.
Appena varcato il cancello c’è il parcheggio e gli uffici. Oltrepassata l’ombra di un albero c’è un cortile, sul quale affacciano due grandi verande a prova di zanzara (in teoria). Dietro ad ognuna di esse ci sono le varie stanze, o celle, che per i prossimi mesi saranno le nostre stanze, la nostra cucina, il nostro magazzino, la sala riunioni. I bagni sono invece un po’ più in là: agognavo una doccia fredda ma, ironia della sorte, il sole batte sul cassone dell’acqua, e la doccia me la sono fatta calda calda.
Il pomeriggio è passato con i saluti alle autorità locali: il Segretario Generale della prefettura locale ci ha accolto nel suo “ufficio” fatto di paglia, all’ombra di un bellissimo albero, nel quale ci ha offerto del the e dato buoni consigli. Il capo dell’UNHCR ci ha accolto nel suo ufficio fatto di mattoni e aria condizionata, e ci ha chiesto dei buoni consigli. Mille facce, mille nomi, mille strette di mano. Solo non siamo riusciti a incontrare il Sultano, il re della regione, una regione nella quale convivono le due autorità amministrativa e tradizionale. Il Sultano padre, a detta di tutti, è un uomo colto e saggio. Il Sultano figlio non sa leggere e scrivere.
Ora sono nella mia stanza, al riparo della zanzariera (preventiva, perché non sembrano esserci molte zanzare), sdraiato su questo che diverrà poco a poco il MIO letto.
Sono le 22, sto per chiudere gli occhi, fuori il muezzin canta e canterà tutta la notte. E io, finalmente, sono arrivato a destinazione. Forse tra un po’ mi sentirò a casa.

Prime impression di Goz Beida

Dopo un weekend passato ad Abéché (di cui ometto una descrizione e le impressioni ricevute), finalmente stamattina abbiamo preso l’aereo per Goz Beida.
L’aereo: un monoelica del World Food Programme a 16 posti, in cui invece del solito discorsetto da hostess con dimostrazione annessa di come allacciare le cinture e come gonfiare il giubbotto di salvataggio, è salito un tizio non meglio identificato che come un amico ci ha chiesto: “allora, le cinture… beh, le avete allacciate? Mi raccomando spegnete i telefonini, e… in caso, dovrebbe esserci nel sedile o lì vicino il sacchetto per vomitare…” (testuali parole!).
50 minuti di volo, sopra un deserto fatto di sabbia, rocce e qualche villaggetto qua e la, che ti chiedi come facciano a viverci. Ogni tanto qualche forte scossone dovuto alle correnti calde, e una continua sudata fino alla destinazione (41 gradi…). Sulla pista di atterraggio, in terra battuta, c’erano già le jeep che ci aspettavano. “Ma Goz Beida dov’è?” mi sono chiesto. La risposta è arrivata dieci minuti dopo, quando abbiamo cominciato ad attraversare delle capanne fatte di legno e canne. Capre di qua e di la, qualche bambino, un piccolo mercato fatto di polvere e poco altro, poi qualche costruzione più solida, recintate da filo spinato: i vari UNHCR, UNICEF, OCHA, e tutte le varie organizzazioni umanitarie, che per forza di cose (rapine, assalti, ribelli, guerre) si sono dovute adeguare. Federica (la nostra capa) ci mostrava ogni cosa. “Ecco la moschea, ecco la casa del Sultano, ecco il fiume”. Quale fiume? Ah già, ora è la stagione secca. Il fiume arriverà, a suo tempo.
Finalmente siamo arrivati alla nostra base, o casa che dirsi voglia. Anch’essa con i muri spinati. E’ carina la nostra casa. Ma soprattutto è la nostra casa, dopo una settimana di vagabondare per questo paese che più lo conosco e più mi sembra strano, o per lo meno ai confini della nostra immaginazione collettiva.
Appena varcato il cancello c’è il parcheggio e gli uffici. Oltrepassata l’ombra di un albero c’è un cortile, sul quale affacciano due grandi verande a prova di zanzara (in teoria). Dietro ad ognuna di esse ci sono le varie stanze, o celle, che per i prossimi mesi saranno le nostre stanze, la nostra cucina, il nostro magazzino, la sala riunioni. I bagni sono invece un po’ più in là: agognavo una doccia fredda ma, ironia della sorte, il sole batte sul cassone dell’acqua, e la doccia me la sono fatta calda calda.
Il pomeriggio è passato con i saluti alle autorità locali: il Segretario Generale della prefettura locale ci ha accolto nel suo “ufficio” fatto di paglia, all’ombra di un bellissimo albero, nel quale ci ha offerto del the e dato buoni consigli. Il capo dell’UNHCR ci ha accolto nel suo ufficio fatto di mattoni e aria condizionata, e ci ha chiesto dei buoni consigli. Mille facce, mille nomi, mille strette di mano. Solo non siamo riusciti a incontrare il Sultano, il re della regione, una regione nella quale convivono le due autorità amministrativa e tradizionale. Il Sultano padre, a detta di tutti, è un uomo colto e saggio. Il Sultano figlio non sa leggere e scrivere.
Ora sono nella mia stanza, al riparo della zanzariera (preventiva, perché non sembrano esserci molte zanzare), sdraiato su questo che diverrà poco a poco il MIO letto.
Sono le 22, sto per chiudere gli occhi, fuori il muezzin canta e canterà tutta la notte. E io, finalmente, sono arrivato a destinazione. Forse tra un po’ mi sentirò a casa.