martedì 11 marzo 2008

Prime impression di Goz Beida

Dopo un weekend passato ad Abéché (di cui ometto una descrizione e le impressioni ricevute), finalmente stamattina abbiamo preso l’aereo per Goz Beida.
L’aereo: un monoelica del World Food Programme a 16 posti, in cui invece del solito discorsetto da hostess con dimostrazione annessa di come allacciare le cinture e come gonfiare il giubbotto di salvataggio, è salito un tizio non meglio identificato che come un amico ci ha chiesto: “allora, le cinture… beh, le avete allacciate? Mi raccomando spegnete i telefonini, e… in caso, dovrebbe esserci nel sedile o lì vicino il sacchetto per vomitare…” (testuali parole!).
50 minuti di volo, sopra un deserto fatto di sabbia, rocce e qualche villaggetto qua e la, che ti chiedi come facciano a viverci. Ogni tanto qualche forte scossone dovuto alle correnti calde, e una continua sudata fino alla destinazione (41 gradi…). Sulla pista di atterraggio, in terra battuta, c’erano già le jeep che ci aspettavano. “Ma Goz Beida dov’è?” mi sono chiesto. La risposta è arrivata dieci minuti dopo, quando abbiamo cominciato ad attraversare delle capanne fatte di legno e canne. Capre di qua e di la, qualche bambino, un piccolo mercato fatto di polvere e poco altro, poi qualche costruzione più solida, recintate da filo spinato: i vari UNHCR, UNICEF, OCHA, e tutte le varie organizzazioni umanitarie, che per forza di cose (rapine, assalti, ribelli, guerre) si sono dovute adeguare. Federica (la nostra capa) ci mostrava ogni cosa. “Ecco la moschea, ecco la casa del Sultano, ecco il fiume”. Quale fiume? Ah già, ora è la stagione secca. Il fiume arriverà, a suo tempo.
Finalmente siamo arrivati alla nostra base, o casa che dirsi voglia. Anch’essa con i muri spinati. E’ carina la nostra casa. Ma soprattutto è la nostra casa, dopo una settimana di vagabondare per questo paese che più lo conosco e più mi sembra strano, o per lo meno ai confini della nostra immaginazione collettiva.
Appena varcato il cancello c’è il parcheggio e gli uffici. Oltrepassata l’ombra di un albero c’è un cortile, sul quale affacciano due grandi verande a prova di zanzara (in teoria). Dietro ad ognuna di esse ci sono le varie stanze, o celle, che per i prossimi mesi saranno le nostre stanze, la nostra cucina, il nostro magazzino, la sala riunioni. I bagni sono invece un po’ più in là: agognavo una doccia fredda ma, ironia della sorte, il sole batte sul cassone dell’acqua, e la doccia me la sono fatta calda calda.
Il pomeriggio è passato con i saluti alle autorità locali: il Segretario Generale della prefettura locale ci ha accolto nel suo “ufficio” fatto di paglia, all’ombra di un bellissimo albero, nel quale ci ha offerto del the e dato buoni consigli. Il capo dell’UNHCR ci ha accolto nel suo ufficio fatto di mattoni e aria condizionata, e ci ha chiesto dei buoni consigli. Mille facce, mille nomi, mille strette di mano. Solo non siamo riusciti a incontrare il Sultano, il re della regione, una regione nella quale convivono le due autorità amministrativa e tradizionale. Il Sultano padre, a detta di tutti, è un uomo colto e saggio. Il Sultano figlio non sa leggere e scrivere.
Ora sono nella mia stanza, al riparo della zanzariera (preventiva, perché non sembrano esserci molte zanzare), sdraiato su questo che diverrà poco a poco il MIO letto.
Sono le 22, sto per chiudere gli occhi, fuori il muezzin canta e canterà tutta la notte. E io, finalmente, sono arrivato a destinazione. Forse tra un po’ mi sentirò a casa.

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