giovedì 25 gennaio 2007

la salute vale 1000 Franchi

Alla fine dei conti ci siamo guardati in faccia, e con gli occhi un po’ sognanti, abbiamo cominciato a pensare cosa fare. Abbiamo (hanno, in realtà) raccolto un sacco di soldi, o almeno quelli che a noi sembrano un sacco di soldi. Figuriamoci per i Ruandesi.
Ci sono tanti progetti, ci sono tante persone. E c’è la voglia di aiutare il più possibile, e di farlo nel modo migliore e educativamente più corretto. Significa che in fondo non conta tanto dare qualcosa a qualcuno, ma fargli capire perché lo stai facendo, e perché vuoi darlo proprio a lui.
E’ per questo che uno dei nostri principali interessi sono i ragazzi di strada. In Rwanda, come in moltissime altre parti del mondo, ci sono migliaia di ragazzi costretti a vivere letteralmente per strada: la loro famiglia non esiste più, oppure esiste ma non ha abbastanza cibo per tutti, o ancora… le situazioni sono migliaia, una per ognuno di questi bambini-ragazzi.
Vivere per strada significa doversi arrangiare ad ogni costo per trovare un pezzo di pane, un posto dove dormire, qualcosa da fare. Arrangiarsi significa il più delle volte elemosinare, rubare, lottare con tutti gli altri che si trovano nella tua situazione. Vivere per strada è anche vivere nel disprezzo di tutti quelli che una casa ce l’hanno. E questo disprezzo si manifesta in vari modi, dalle manganellate della polizia fino all’indifferenza generalizzata della maggior parte delle persone e delle istituzioni: il problema in sé non esiste, non viene vissuto come tale.
Quando qui a Gisenyi abbiamo cominciato a conoscere i ragazzi di strada ci siamo accorti di come in realtà questi non siano altro che bambini che dalla vita non hanno nulla, ma che sul serio sono disposti a darti tutto quello che hanno pur di avere un po’ di considerazione, pur di poter dire di avere un amico.
E’ per questo che ci interessano i ragazzi di strada. Perché a nessun altro gliene importa nulla.

E così, con tutti questi soldi che ci facciamo? Sarebbe facile garantire un pasto caldo, comprare vestiti per tutti, distribuire un po’ di caramelle. Ma il pasto caldo non basta mai, i vestiti vengono rivenduti al mercato in cambio di un po’ di pane (o nel peggiore dei casi in cambio di un po’ di colla da sniffare), le caramelle non fanno altro che alimentare la concezione del bianco che distribuisce sciocchezze.
La Caritas ha un piccolo progetto che garantisce a pochi fortunati (una ventina) l’occasione di imparare un mestiere: meccanico, parrucchiere, lavaggio macchine, o anche solo la “semplice scuola”. Ma, ci siamo chiesti, cosa succede quando uno di questi ragazzi si ammala? Chi se ne prende cura? Lo Stato non garantisce agli indigenti l’accesso totalmente gratuito. Quanto costerebbe dare a ciascuno l’assistenza sanitaria? La risposta 1000 Franchi, 1 euro e trenta centesimi…
E allora, cosa fare di tutti questi soldi?

Chissene

E’ una strana sensazione quella che sta prendendo in questi giorni piede dentro di me, e che condiziona per forza di cose ogni mia azione e ogni mio ragionamento.
Gisenyi ci ha accolto come sempre festosa e disponibile, piena di allegria nonostante la sua gente povera e dal volto umile. Tra disgrazie e piccole fortune fatte di visi di uomini, donne e bambini che non hanno avuto molto dalla vita ma sanno come usare quel poco che gli è stato concesso. “Sono tornati i muzungo” (anzi, gli abazungo se proprio vogliamo essere grammaticamente corretti), avranno pensato i più; qualcuno avrà invece pensato “sono tornati gli Italiani”, e una cerchia sempre più stretta avrà detto “sono tornati Peppe, Paola e Ludovico”. Chiunque fosse a pensare questa cosa, non ha avuto dubbi su come reagire: chiedendo il proprio “giusto” regalo, qualcosa che testimoniasse concretamente il loro legame con noi. C’è stato quindi chi si è visto regalare un po’ di cioccolata, chi una maglietta, chi una semplice foto… proprio le foto sono spesso il dono più apprezzato, quello che si conserverà gelosamente e nel quale ci si può specchiare come non mai.
Quello che riscontro, è che la vita ha proceduto normale, senza nessun cambiamento, esattamente come avevo ritrovato Roma un mese fa, dove nulla era cambiato. La lenta vita africana qui non è cambiata, e dentro di me si fa strada il pensiero che non cambierà neanche quando andrò via. Direte “e certo!”, ma vi assicuro che non è facile abituarsi all’idea che tutto sommato quello che si può fare per questa gente è veramente poco.
Ma la sensazione spiacevole è un’altra, è ancora più sottile, e per questo più fastidiosa. E’ un senso di dejà vu, come uno strato che sta appannando la mia vista e che non mi permette di avere lo stesso spirito critico che avevo qualche mese fa. Mi sto abituando.
Mi abituo a vedere i bambini scalzi, mi abituo a essere circondato da persone che mi chiedono 100 franchi ad ogni angolo di strada, mi abituo a vivere circondato da bananeti, a vivere con questa gente che fa tutto a metà, a iniziare le conversazioni in francese e a finirle in un sempre meno stentato kinyarwanda. Mi abituo all’idea di vivere fuori di casa, di avere per famiglia un napoletano e una cuneese, di aver abbandonato i miei amici a Roma, e di starne trovando altri in giro per il mondo, mi abituo alla precarietà che tutto questo comporta.
Mi abituo all’idea che questa stia diventando la mia vita. E che probabilmente lo sarà per un bel pezzo.
Ed io, che sono sempre critico su tutto, non posso che vivere questo acquietarsi dei miei pensieri con un po’ di sospetto: sto maturando, o sto imparando a dire chissenefrega?

lunedì 15 gennaio 2007

15.01

Oggi parto. Oggi ritorno.
Per la prima volta in vita mia parto, e non sento l'emozione, la paura, quel brivido che ti scende lungo la schiena: non vado in un posto nuovo, non vado alla scoperta di una sensazione nuova. Torno, in un paese dal quale è difficile uscire.
Torno, torno a casa mia, in quella che ormai considero una terra amica, che mi ospita e nella quale ho imparato a sentirmi ben accolto.
Penso a mille cose diverse; penso a quelli che da lì, o da chissà dove, tentano di venire in Italia, a Roma, in questa città che non riesco più a capire, e dalla quale la fuga rappresenta non solo una necessità psicologica, ma anche l’unica alternativa a un mondo sempre più fatto di plastica e cartelloni pubblicitari.
Ritorno, apro le braccia all’altra parte di mondo che ancora non sa com’è facile comprare un taglia-peli-del-naso elettronico su internet, o che non immagina quante e bellissime cose si dicono questi occidentali ricchi e famosi in televisione, i discorsi e i dibattiti profondi ed ispirati che leggiamo sui giornali, o che dobbiamo subire come automi davanti ai televisori spacciatori di verità costruite.
Rientro, ritorno, perché scappare da questo mondo, è l’unico modo di conservare una dignità. Mi sento cacciato, inadeguato, più indietro o più avanti, non importa; comunque inadatto. Ma non voglio scappare. Voglio affrontare il mio mondo, la mia Roma, a testa alta, guardare i pupazzi informatici dall’alto in basso, voglio poter affermare un giorno “eppure io…” senza dover mentire. Voglio tenere duro; non mollare, non farne passare nemmeno una.
E allora io rientro, io ritorno. Io non parto, non vado via, tento una strada al rovescio, una strada che passa dall’Africa e a casa di tutti quegli uomini che ancora non sanno, ma che subodorano aria di fregatura, e che verranno prima o poi accecati dal bagliore del cartellone pubblicitario che subdolamente dice: “più compri, più guadagni”…

E quindi siamo qui

Siamo quelli che decidono un’altra cosa. Non ci accomuna nulla in particolare. Siamo diversi, eterogenei, siamo semplicemente uomini, donne, ragazzi. Bambini nell’anima. Siamo. E questo è già qualcosa.

Decidiamo di non avere vite facili, di non sapere cosa succederà domani, decidiamo di andare via, lontano da casa, e di vedere come cambieremo. Accettiamo il nostro destino, e vogliamo che le nostre vite servano a qualcosa. Crediamo in noi stessi. A volte, sogniamo. Un mondo diverso, o per lo meno migliore.

Ogni giorno della nostra vita sappiamo che qualcosa può essere fatto, e che pensare “no, nulla cambierà” è solo una scusa, un modo di tapparsi gli occhi e di accettare passivamente la realtà delle cose, la povertà delle nostre anime.

Reagiamo, siamo attimi di esitazione della mente, ci insinuiamo in quei dubbi, scaviamo nelle nostre e nelle vostre coscienze.

Possiamo, abbiamo in noi la forza dell’umanità a guidarci. Possiamo. E lo facciamo. Senza per questo nasconderci dietro al nostro autocompiacimento. Possiamo, e lo faremo.

Zero

Ciao, prova uno due e tre. e pure quattro se proprio lo volete dire.