giovedì 25 gennaio 2007

Chissene

E’ una strana sensazione quella che sta prendendo in questi giorni piede dentro di me, e che condiziona per forza di cose ogni mia azione e ogni mio ragionamento.
Gisenyi ci ha accolto come sempre festosa e disponibile, piena di allegria nonostante la sua gente povera e dal volto umile. Tra disgrazie e piccole fortune fatte di visi di uomini, donne e bambini che non hanno avuto molto dalla vita ma sanno come usare quel poco che gli è stato concesso. “Sono tornati i muzungo” (anzi, gli abazungo se proprio vogliamo essere grammaticamente corretti), avranno pensato i più; qualcuno avrà invece pensato “sono tornati gli Italiani”, e una cerchia sempre più stretta avrà detto “sono tornati Peppe, Paola e Ludovico”. Chiunque fosse a pensare questa cosa, non ha avuto dubbi su come reagire: chiedendo il proprio “giusto” regalo, qualcosa che testimoniasse concretamente il loro legame con noi. C’è stato quindi chi si è visto regalare un po’ di cioccolata, chi una maglietta, chi una semplice foto… proprio le foto sono spesso il dono più apprezzato, quello che si conserverà gelosamente e nel quale ci si può specchiare come non mai.
Quello che riscontro, è che la vita ha proceduto normale, senza nessun cambiamento, esattamente come avevo ritrovato Roma un mese fa, dove nulla era cambiato. La lenta vita africana qui non è cambiata, e dentro di me si fa strada il pensiero che non cambierà neanche quando andrò via. Direte “e certo!”, ma vi assicuro che non è facile abituarsi all’idea che tutto sommato quello che si può fare per questa gente è veramente poco.
Ma la sensazione spiacevole è un’altra, è ancora più sottile, e per questo più fastidiosa. E’ un senso di dejà vu, come uno strato che sta appannando la mia vista e che non mi permette di avere lo stesso spirito critico che avevo qualche mese fa. Mi sto abituando.
Mi abituo a vedere i bambini scalzi, mi abituo a essere circondato da persone che mi chiedono 100 franchi ad ogni angolo di strada, mi abituo a vivere circondato da bananeti, a vivere con questa gente che fa tutto a metà, a iniziare le conversazioni in francese e a finirle in un sempre meno stentato kinyarwanda. Mi abituo all’idea di vivere fuori di casa, di avere per famiglia un napoletano e una cuneese, di aver abbandonato i miei amici a Roma, e di starne trovando altri in giro per il mondo, mi abituo alla precarietà che tutto questo comporta.
Mi abituo all’idea che questa stia diventando la mia vita. E che probabilmente lo sarà per un bel pezzo.
Ed io, che sono sempre critico su tutto, non posso che vivere questo acquietarsi dei miei pensieri con un po’ di sospetto: sto maturando, o sto imparando a dire chissenefrega?

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